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Espatrio durante il Coronavirus

Vivere in espatrio durante il Coronavirus pone delle sfide molto diverse rispetto a chi vive l’esperienza da stanziale. Eccovi la mia riflessione.

 

Da 31 anni vivo in espatrio, da 15 sono in strettissimo contatto con la comunità espatriata attraverso Expatclic, e da sette con il mio lavoro di coach per espatriati. Mi viene quindi naturale osservare e analizzare questo periodo dal punto di vista dell’espatriata. Perchè vivere in espatrio durante il coronavirus è decisamente diverso da chi vive in patria, la stessa da anni.

La sfida più grande per le famiglie espatriate in questo momento è essere separate dai propri figli e figlie, e dai propri cari. E ne parlo subito e in modo diretto perchè questa mattina mi sono molto irritata quando ho ascoltato le notizie, dove si diceva che la gente in Italia continua a uscire di casa alla prima occasione.

La mia situazione la conoscete: vivo a Ginevra con mio marito, ho un figlio a Parigi e uno a Madrid. Siamo bloccati ognuno nella sua città e osserviamo impotenti la crescita di morti e contagi, sapendo che qualsiasi cosa succeda, non potremo essere insieme.

Mia madre, 89 anni, è blindata in una casa di cura che fino a dieci giorni fa lasciava entrare cani e porci. E’ già abbastanza penoso per me pensare a cosa potrebbe succedere se il virus è entrato nella residenza. Sapere poi che se dovesse succedere qualcosa io sono fisicamente impedita di raggiungere la mia città e la mia famiglia, mi manda ai matti.

Ieri sera ho ricevuto il messaggio di un’amica francese: lei è bloccata in campagna con la sua vecchia mamma (e la paura di avere già il virus e trasmetterglielo), una figlia è a Parigi, l’altra a Gerusalemme, il marito a Tunisi. Tutti bloccati. E senza sapere, ovviamente, quando l’incubo finirà.

E come lei, come me, centinaia di altre famiglie espatriate, oltre al dramma della pandemia, stanno soffrendo per l’impossibilità di colmare la distanza fisica che le separa dai propri cari.

La mancanza di radici ha tanti effetti su chi sceglie una vita mobile, effetti che si scoprono cammin facendo. Vivere in espatrio durante il Coronavirus ce ne ha presentato brutalmente uno al quale non eravamo ancora stati confrontati con questa intensità.

Certo, io – come tantissimi altri – non sono nuova agli isolamenti forzati. Durante la mia prima missione in Sudan, sono rimasta bloccata nel sud del paese perchè dopo che ci ero arrivata, in elicottero, hanno bloccato tutti gli spostamenti. A Brazzaville, nel ’97, siamo rimasti dieci giorni chiusi in casa con i bambini piccoli e mia madre, in vacanza per consolarsi lì della perdita di sua figlia. Certo, in quel momento non era un virus a tenerci al chiuso, ma la paura di stupri e violenza. Nel 2001 sono rimasta bloccata nove giorni all’aeroporto di Miami con i miei due bambini, mentre ero in transito per tornare dall’Italia in Honduras.

La quarantena di questi giorni ha un sapore tutto diverso. Siamo tutti bloccati, e questo crea un senso di solidarietà e comunanza che rende l’esperienza unica. Ma i miei figli restano lontani. Ogni giorno, penosamente, cerco di cogliere nella voce del mio figlio minore i segnali del fatto che ce la fa, anche se è bloccato in un appartamento piccolo e senza neanche un balconcino. Ogni giorno chiedo al grande come va la salute. Lui è asmatico, e come tutti è stato esposto al virus in maniera massiccia.

Quando sento che in Italia la gente continua a uscire, minimizza, si lamenta del fatto che schioda se non prende una boccata d’aria, mi viene una rabbia che non so come esprimere. Mi viene da urlargli che loro hanno il privilegio di essere tutti insieme. Che in questo momento io mi metterei anche un sacchetto in testa per poter essere nella stessa stanza con i miei figli. Che non si rendono conto del tesoro immenso di poter attraversare questo periodo sotto lo stesso tetto. Di poter abbracciare i figli e calmarli, di poter guardare un film insieme, mangiare una pasta insieme.

Noi espatriati siamo tutti come foglie al vento di qui e di là. Abbiamo finestre su tanti paesi al mondo, e siamo abituati a gestire situazioni eccezionali, e a reagire tonicamente alle emergenze. Ma niente può calmare l’ansia di sentirsi bloccati in un momento in cui si muore come mosche, sapendo che, qualsiasi cosa dovesse succedere, non avremo modo di passare le frontiere. Pensateci, quando vi viene voglia di prendere una boccata d’aria. Magari aprite la finestra, abbracciate vostra figlia, e guardate insieme cosa succede di sotto.

Coraggio a tutti,

 

Claudia Landini
Marzo 2020

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