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Come il gioco può aiutare i bambini espatriati

In questo post rifletto sulla mia esperienza di madre che ha cresciuto i suoi figli in sei paesi diversi, per capire insieme a voi come il gioco può aiutare i bambini espatriati.

 

Io ho sempre amato giocare, e quando sono diventata mamma non mi sono certo risparmiata. Memore dei momenti fantastici che ho trascorso giocando da piccola, ho sempre fatto di tutto per far giocare i miei figli il più possibile.

Io però era una bambina stanziale. Sono nata e cresciuta a Milano, nella stessa zona. Non è mai stato un problema per me avere compagni di gioco. Mi dividevo tra amiche di scuola, cugini e cugine che abitavano in zona, coetanei del condominio e del quartiere.

Questa è una cosa che i bimbi e le bimbe expat non conoscono. La loro vita in un nuovo paese si articola tra la fatica degli inizi, in cui tutto è sconosciuto e va imparato da zero, e la tristezza della fine, quando arriva il momento di lasciare gli amati amici.

aiutare i bambini espatriatiNella mia esperienza il gioco è uno strumento fantastico per aiutare i bambini espatriati. Ad esempio, può fare meraviglie per accelerare il processo di costruzione di un circolo d’amicizie. Ne avevo parlato un po’ in quest’articolo, ma oggi voglio andare più a fondo ed analizzare i diversi modi in cui il gioco può aiutare i bambini espatriati ad attutire l’impatto dell’atterraggio nelle loro nuove realtà.

Innanzitutto il gioco distrae, calma e riempie il vuoto che spesso i nostri figli e figlie sentono dentro quando tutto ciò che amavano è rimasto inesorabilmente alle spalle. Anche se i primi tempi in un nuovo paese sono molto stancanti e non sempre si hanno la voglia e la lucidità di buttarsi sul pavimento a giocare al cane Beethoven o sedersi al tavolo a comprar case con Monopoli, è molto importante sforzarsi di farlo.

Una famiglia espatriata che integra il gioco come pratica quotidiana fissa, da considerare alla stregua di un pasto, una passeggiata o della pulizia dei denti, assicura dei passaggi più lievi tra una realtà e l’altra. Perché sarà sempre in grado di creare dei momenti di spensieratezza (il gioco sospende dalla realtà) che costituiranno per la prole un caldo rifugio caldo nei periodi d’incertezza.

Il gioco diventa un rituale famigliare, e non è necessario che vi dica quanto i rituali possano aiutare i bambini espatriati e le loro famiglie. Danno sicurezza, senso di appartenenza e di continuità. E al contrario di altri rituali, che magari implicano degli elementi esterni e non controllabili, il gioco è sempre facilmente riproponibile ovunque vi troviate.

E per quanto riguarda i rapporti con l’esterno? Ecco come il gioco mi ha aiutata ad aiutare i miei figli nei vari adattamenti:

Honduras, il gioco per rendere amata la mia casa e dare fiducia ai genitori dei compagni di classe

Quando si arriva in un nuovo paese e nessuno invita i nostri figli a giocare a casa propria, non resta che fare quello che desidereremmo avvenisse: cioè, essere noi quelle che invitano a casa i compagni. Perché questo avvenga, però, devono sussistere due condizioni:

  • i bambini devono aver voglia di venire a casa nostra
  • i genitori devono fidarsi nell’affidarci i loro figli e figlie

Il gioco ci viene in soccorso. Perché creando la prima condizione, cioè che i compagni desiderino, anzi smanino per venire a casa nostra, risolve anche la seconda: difficilmente dei genitori impediscono ai propri figli di trascorrere giornate in case estranee, se il feedback che questi danno loro non è più che positivo.

aiutare i bambini espatriati

Non sto però parlando di gioco generico. Ci sono giochi che per essere organizzati ed essere veramente godibili, hanno bisogno della presenza dei grandi. Esempi? Mercante in Fiera, le sedie musicali, la caccia al tesoro sono i primi tre che mi vengono in mente, e che ho organizzato fino alla nausea sia in Honduras che in Perù. Anzi, fino alla nausea no perché giocare e vederli giocare non mi stancava mai.

Perù, il gioco per sbloccare un ambientamento complicato e doloroso

La scuola francese che frequentavano i miei figli a Lima non era il massimo in termini di accoglienza. Anzi, era proprio un disastro, ma non è questo l’argomento del mio post. L’inserimento del mio figlio maggiore è stato durissimo. Per lui e, di conseguenza, per noi.

Quando i primi tempi Alessandro non veniva invitato dai suoi compagni, veniva preso in giro, e una volta fu addirittura aggredito fisicamente, abbiamo cercato di capire cosa non andasse. Ci siamo rapidamente resi conto che non c’era proprio cultura di accoglienza nella scuola, e di conseguenza nelle singole classi.

Abbiamo deciso di organizzare un barbecue di classe a casa nostra, con l’intento preciso di far giocare sia i professori che gli alunni. Si sono divertiti come pazzi. I ragazzi osservavano con curiosità i loro professori che tentavano di far stare una manciata di chiodi tutti insieme su uno stesso, unico chiodo. I professori erano grati di vedere la classe impegnata in giochi di gruppo fatti apposta per creare coesione, entusiasmo e identità.

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Non abbiamo risolto i problemi in una giornata, ma l’aver proposto attività ludiche ha permesso ai ragazzi di rilassarsi, divertirsi e liberarsi, anche se solo per poche ore, di quelle costruzioni mentali che impedivano loro di accogliere il “diverso” nel loro gruppo. Il gioco aveva creato uno spazio dove potevano relazionarsi in maniera inedita. E quel modo di relazionarsi è rimasto dentro di loro anche quando il ritrovarsi a scuola spingeva per riportarli alle vecchie dinamiche relazionali.

Perù, il gioco per far capire un paio di cose ai genitori

Questa dinamica della mancata accoglienza del diverso ha radici molto profonde e non era chiara nemmeno per i genitori peruviani (ma anche per molti genitori non peruviani) che si trovavano in una scuola internazionale. Quando noi arrivammo alla scuola francese di Lima, la maggior parte dei genitori peruviani non aveva proprio coscienza di cosa vuol dire sentirsi diverso e doversi inserire in un ambiente compatto di cui bisogna scoprire tutte le regole e i valori.

La mia proposta è stata dunque di creare un ciclo d’incontri tra genitori, per spingere verso la comprensione di qualcosa che loro, essendo stanziali, non avevano occasione di provare sulla propria pelle, e quindi faticavano a comprendere.

Cos’altro potevo proporre se non una bella sessione di Barnga? Il Barnga è una simulazione utilissima di cosa vuol dire arrivare in un luogo dove le regole sono diverse da quelle che conosciamo e che siamo abituati a rispettare.

Gli incontri sono stati un successo, e non solo perché a un attento debriefing i genitori si sono resi magicamente conto di cosa provano bimbi e bimbe expat in arrivo in un nuovo ambiente. Si sono anche divertiti come dei matti, e questo ha permesso di creare nuovi legami e rinverdirne di vecchi, ma anche di conservare quel momento d’incontro come un caldo elemento di costruzione di una nuova identità: quella dei genitori della scuola francese, tutti impegnati verso un unico obiettivo, cioè creare la miglior scuola possibile per i nostri figli e figlie, nella quale nessuno si sentisse escluso o infelice.

Il gioco come identità di famiglia

La storia della mia famiglia forse la conoscete. I miei due figli sono cresciuti in un turbinio di paesi diversi. Non è stato sempre facile rilocarsi, soprattutto quando loro erano grandicelli e soffrivano tantissimo al lasciarsi alle spalle amici e routine. Il gioco è sempre stato una costante nella nostra famiglia, in dosi massicce. Naturalmente adattato alle varie fasi di vita e alle età dei bambini. Nella nostra storia mobile, abbiamo sempre giocato e fatto giocare gli amici e amiche dei figli. Ancora oggi, che i miei due giovani uomini vivono fuori casa, continuiamo a giocare tantissimo. Quando ogni estate ci ritroviamo nella nostra amata casina toscana, la prima cosa che facciamo dopo aver posato le valigie e aperto le finestre, è di metterci al tavolo a giocare. Perché casa, per noi, è anche il gioco.

 

Claudia Landini
Ottobre 2020
Le foto sono tutte mie

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