Riflessioni sulla malattia
Mi sento a disagio a fare riflessioni sulla malattia nel momento in cui i Palestinesi vengono uccisi a centinaia ogni giorno da mesi. Ma ho imparato tanto in questo periodo di problemi di salute, e non posso reprimere la mia innata spinta a condividere ai quattro venti quello che mi frulla in testa.
Alcuni di voi sanno che da anni soffro di piastrinopenia autoimmune, una condizione che ho sviluppato dopo il terzo attacco di Dengue, mentre vivevo a Jakarta. Condizione che ho portato con me anche dopo il rientro in Europa, e che mi accompagna tutt’oggi.
Quello che è successo in quest’ultimo anno è che le mie piastrine, che nel corso degli ultimi anni sono andate su e giù come un’altalena, hanno puntato decisamente al ribasso, causando, negli ultimi mesi, un terremoto di esami, accertamenti, allarmi e interventi, come infusioni di immunoglobuline, cure di vario tipo e telefonate e giri di notizie a non finire in famiglia e nella cerchia di amici e amiche.
Eccovi quindi alcune riflessioni sulla malattia in termini molto generali. Magari in alcune vi ritroverete, o ne avete da aggiungere di vostre (in questo caso mi farebbe davvero piacere sentirle).
Dalla malattia non si torna indietro
Ci sono diversi gradi di serietà di quello che definisco sotto l’ombrello “malattia”. Il mio, per fortuna, è molto basso. Ma durante le mie peregrinazioni nei vari ospedali di questo mese, e tra le persone che conosco che non sono state bene, sono entrata in contatto con condizioni molto più serie e a volte irreversibili.
In questi casi, il quadro è differente. O si sa già qual è la strada che si apre davanti a chi difficilmente troverà una soluzione alla malattia, o l’ansia, nel caso di patologie molto serie ma che lasciano ancora un barlume di speranza, è alla massima potenza.
Anche, però, in casi di relativa serietà come il mio, il fattore che divide la vita in due è che non si tornerà mai indietro dopo che si è provato sulla propria pelle cosa vuol dire trovarsi in un limbo d’incertezza, dove le cose potrebbero prendere una piega positiva, ma anche una negativa.
Quand’anche le cose si aggiustano, il microtrauma di sapere che in qualsiasi momento potrebbe succedere di nuovo che la salute diventa improvvisamente a rischio, non ci abbandona più. E questa è una cosa che cambia radicalmente la visione del futuro e il rapporto con la vita.
La perdita di controllo diventa improvvisamente reale
La malattia è anche una grande lezione che ci fa capire come in realtà non abbiamo controllo su nulla. Noi che ci affanniamo a plasmare tutto, a strutturare, a tenere tutto insieme e dentro a binari prestabiliti che decidiamo e applichiamo con dovizia, dobbiamo renderci conto all’improvviso che tutto quest’affanno viene polverizzato quando la malattia insorge.
Anche questo è un passaggio forte. Perché ci obbliga ad abbandonare la sicumera che ci arriva dal pensarci nella sala di controllo, e ad adattarci alle circostanze dettate dalla malattia, compreso il fatto di dover disfare continuamente programmi.
Emergono cose nuove nelle relazioni
Come sempre nella vita, quando intervengono fattori non usuali, le relazioni con le persone si riplasmano intorno a queste. La malattia porta a galla aspetti indediti in chi ci circonda, e che non si aveva necessariamente avuto modo di valutare prima.
Nella mia esperienza, ho visto come persone vicine reagiscono in base a quella che è la loro personalità e il loro vissuto. C’è chi, organizzatore compulsivo, ha bisogno di strutturare tutte le informazioni sul mio stato di salute, proiettare scenari, e rassicurarmi con dati alla mano. Chi invece, sfegatata empatica, si limita a mandare baci, cuori e amore, perché quella è per lei la cosa più importante. E poi ci sono tutte le reazioni di mezzo. E’ come se intorno alla malattia, si ridisegnasse il capitale umano di cui disponiamo, facendoci scoprire nuovi aspetti, e dandoci la possibilità di scoprirne anche dentro di noi, che di fronte a questi reagiamo in un modo o nell’altro.
La più importante riflessione sulla malattia è questa
E’ incredibile come ancora persista uno stigma profondissimo rispetto alla malattia. E come questo si esprima nel modo in cui parliamo o non parliamo delle nostre condizioni. E’ come se ci si dovesse vergognare di aver sviluppato una condizione di salute anomala, grave o meno grave che sia. E questo è profondamente ingiusto, oltre che deleterio.
In questi mesi ho visto lo stigma in tantissime occasioni: nella scelta di parlare o meno della cosa, sia con me che in una cerchia più larga, nel chiedermi informazioni (quanta gente ha spesso esordito dicendomi “volevo sapere come stavi ma temevo di interferire nella tua intimità se chiedevo“), negli sguardi esitanti di chi, rivedendomi magari dopo un po’ di tempo, mi diceva che era stato informato da tizio o caio…quasi a scusarsi.
Capisco che non a tutti faccia piacere che la propria condizione venga sbandierata ai quattro venti, e lo rispetto. Ma lo strato di sottile vergogna che ricopre le comunicazioni sulla malattia non giova a nessuno, soprattutto a chi la vive. Ribadisco: non c’è nessun motivo di vergognarsi se qualcosa è andato storto nella sofisticata macchina che è il nostro corpo. Succede a tantissimi, è una cosa normale della vita. E come tale va approcciata e affrontata.
Nel suo straordinario libro Little Earthquakes, Sarah Mandel racconta di come all’ultimo stadio del cancro che l’ha uccisa, si sia appoggiata alla comunità che ha costruito su Instagram. E nel farlo, ci ha lasciato una testimonianza preziosa di cosa significa affrontare queste tragedie. Con umanità e speranza. In fondo, se proprio qualcosa di positivo ci deve venire dalla malattia, è proprio il fatto di portare a galla sentimenti di amore, vicinanza e solidarietà. Parliamone, facciamoli uscire, mettiamoli in circolo. Il mondo ne ha tanto bisogno.