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La morte di mia mamma

Il 4 aprile mia mamma si è spenta nella casa di riposo dove viveva da qualche anno. Questo post è un tassello per me per elaborare la sua perdita in queste tristi circostanze.

Negli ultimi anni ci pensavo spesso, alla sua morte. Anzi, ci pensavo ogni volta che lasciavo la sua casa di cura, il cuore sempre più gonfio. Pensavo che quando sarebbe successo le avremmo fatto uno splendido funerale. L’avremmo celebrata nella chiesa dove da anni non poteva più andare, e avremmo invitato tutte, tutte le persone che hanno incrociato il suo cammino.

Non avevo dubbi che ci sarebbe stata una grandissima folla. E spesso immaginavo anche cosa mi sarebbe piaciuto dire, a tutte quelle persone a cui lei ha toccato il cuore. Immaginavo un discorso bellissimo, che ci avrebbe fatto tutti piangere e ridere. Ci avrebbe connessi nel suo ricordo. E sarebbe stato il giusto saluto a una donna che ha lasciato un’impronta profonda nei cuori di chi ha avuto la fortuna di conoscerla.

E invece non è andata così. Mai mi sarei immaginata di doverla accompagnare nei suoi ultimi giorni solo con la mente e il cuore, di piangerla da una città e una casa straniera, di potermi solo immaginare il suo viso negli ultimi momenti di vita. Di non sapere nulla di chi le ha chiuso gli occhi, l’ha deposta nella bara, l’ha accompagnata al forno crematorio.

Ma non voglio parlare del calvario che mi ha accompagnata da quando abbiamo saputo che era in coma, e dell’infinita tristezza di non poter vivere questo momento con i miei fratelli.

Voglio innanzitutto raccontare che fino all’ultimo mia mamma è stata serena e tranquilla nel suo piccolo mondo. In linea con la forza e la gioia di vivere che l’hanno sostenuta in tutta la sua vita, spesso ingrata e faticosa, bastava provocarla leggermente per vederla scoppiare in una bella risata. Era affettuosa, anche se abbracciarmi le costava fatica, e pur non riconoscendomi come sua figlia, sentiva che ero qualcuno di importante e amato. Il ricordo dei suoi sorrisi e le sue esclamazioni di gioia quando mi rivedeva dopo un po’ che non l’andavo a trovare mi scalderanno il cuore per sempre. Fino all’ultimo ha mangiato come un lupetto, godendo del cibo in vecchiaia così come aveva sempre fatto in gioventù.

Dalla nostra mamma come la conoscevamo ci eravamo già congedati. Vari disturbi di salute, e una demenza senile sempre più testarda, avevano cambiato la sua vita, e il nostro rapporto con lei.

Fino a quando è riuscita, intorno ai suoi 80 anni, ha vissuto nell’unico modo che conosceva: a tutto gas. Era sempre al massimo delle sue possibilità – fisicamente, emotivamente, socialmente. Siamo cresciuti con una mamma che si dedicava con incredibile abnegazione alla casa e alla famiglia. Casa che ha sempre mantenuto aperta, in tutte le circostanze e in tutte le fasi della nostra vita.

Da quando so d’esistere, ricordo gente a casa nostra. Clienti stranieri di mio papà (mitiche erano le cene che lei preparava per loro), parenti, vicini di casa. Per noi cugini, compagni di scuola, amici vari, e più avanti fidanzati e fidanzate, musicisti colleghi dei miei fratelli, un via vai di persone, situazioni e lingue nel quale lei si beava. Le relazioni umane e l’aiuto agli altri erano per lei imprescindibili, e non si è mai risparmiata per tradurli in momenti concreti nelle nostre esistenze.

Per lei lasciarci giocare è sempre stato più importante che farci studiare. Ho ricordi pieni di libertà, d’intere giornate passate a giocare, all’aperto o in casa, con due o dieci amici, facendo di tutto, senza mai nessuna interferenza da parte sua. Questa libertà ce l’ha assicurata anche crescendo, aprendo la porta della sua casa alle persone che man mano arrivavano ad abitare il nostro mondo adulto.

La vita non è stata gentile con lei. Ha perso il suo papà giovanissima e il mio, di papà, ha presto cominciato a soffrire di cuore. Per molti versi lei ha assunto il ruolo di capofamiglia, facendo tutto quello che mio padre non poteva più fare, e assistendolo con infinita pazienza fino all’ultimo.

Anche mio padre ha avuto una vita molto dura. Nel giro di un anno ha perso la mamma, un adorato fratello, morto giovanissimo, e il papà. Quest’ultimo è mancato sotto i suoi occhi, mentre si trovavano a Rapallo, mio padre per riposarsi dal secondo infarto che l’aveva colpito, mio nonno per riprendersi dalla morte del figlio. Mitica nella storia famigliare rimarrà la corsa di mia madre con la sua FIAT 124 da Milano a Rapallo, quando è stata avvisata della morte del nonno. Un’ora e dieci, all’epoca. Un record per i tempi.

Mia mamma è rimasta vedova a quarantanove anni. La perdita prematura del marito l’ha motivata ancora di più a buttarsi sui figli, in quel momento ancora tutti e quattro a casa. La sua porta si è aperta ancora di più, e non solo sui cardini. Il dolore ci ha unite, e a partire da qual momento parlavamo di più. Potevo raccontarle tutto, anche cose molto intime. Lei non mi giudicava mai. Rideva spesso. Adorava scherzare.

Poi è venuto il colpo più duro, la morte della sua prima figlia, che fino all’ultimo ha vissuto con lei. Quella volta ho davvero temuto che si spezzasse. Me la ricordo ancora, quando l’ho salutata sotto casa sua per tornare a Brazzaville, dove vivevo in quel momento. I capelli grigi al vento, mi guardava come se volesse catturarmi, agganciarmi a sé. Ma mi ha lasciata andare, naturalmente, e pochi mesi dopo, caparbia anche nel dolore, era a Brazzaville con noi, e con noi ha attraversato il fiume Congo, su una piroga a remi, quando è scoppiata la guerra civile e siam dovuti scappare.

A parte in Sudan e Angola, mia mamma è venuta a trovarci in tutti i posti in cui abbiamo abitato. Con Elena, finché è stata in vita, e poi da sola. A Lima le affittavamo un pianoforte da tenere a casa, per non privarla per un mese della sua passione. E lei suonava, giocava coi bambini, mi accompagnava in giro e cucinava. Cucinava talmente bene che spesso le mie amiche le chiedevano di spiegare i segreti dei suoi gnocchi o dei suoi fragranti panini.

L’ultimo posto in cui è venuta a trovarci è stato Gerusalemme. Camminava già male, perché le si era manifestata quell’odiosa neuropatia agli arti inferiori che l’avrebbe rapidamente bloccata del tutto. Però abbiamo fatto tutta la Via Crucis insieme il giorno dopo il suo arrivo, ed era contentissima.

Mi sembra ancora tutto così irreale. Ogni mattina quando apro gli occhi il mio pensiero va a lei che non c’è più. Me lo devo dire e ripetere perché fatico a crederlo. Mi sembra irreale che quando potrò finalmente andare a Milano, non andrò più a trovarla, non salirò quei due piani della sua ultima casa per trovarla lì, abbracciata al suo gattino di peluche. Lei pensava che fosse vivo. Lo accarezzava e si preoccupava se non glielo davano da tenere vicino. Ha sempre amato gli animali, e l’ultima gatta che ha avuto prima che la portassimo in casa di cura, l’aveva presa contro tutte le nostre insistenze di non farlo. Per tapparmi la bocca definitivamente quando le dicevo che sarebbe stato faticoso, che ormai si muoveva male, un animale è pur sempre un impegno, mi disse: “Claudia, io voglio avere in casa qualcosa di vivo“.

L’ha amata fino all’ultimo, la sua vita. Non la voleva proprio mollare. E penso che questo sia il regalo più bello che ci ha fatto. Ha insegnato anche a noi ad amarla, profondamente, sempre e nonostante tutto. E quando mi dico che questa volta la vita ha davvero esagerato nel giocarci l’ennesimo tiro mancino, penso a lei e so che ce la farò. Che presto questa tristezza lascerà definitivamente posto all’allegria per aver avuto una madre come lei, e continuerò a ridere come lei mi ha insegnato a fare.

 

Claudia Landini
Aprile 2020
Foto tutte nostre

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