I cambiamenti del genocidio
Siamo arrivati a un punto in cui tutto mi sembra una perdita di tempo. Ma con questo genocidio ci dobbiamo convivere, finché non riusciremo a fermarlo. E allora ecco una riflessione sui cambiamenti che questo genocidio sta provocando in me. In ordine caotico e nella speranza che possa servirvi in qualche modo.
Sono passati circa 78 anni da quando il popolo palestinese ha cominciato a subire un brutale annientamento, e quasi due da quando le intenzioni di israele di prendersi tutta la Palestina storica si sono mostrate a volto completamente scoperto, con le conseguenze drammatiche che abbiamo tutti sotto gli occhi.
Com’è possibile, ci chiediamo in tante, aver permesso tutto questo?
Qualche giorno fa partecipavo a un ritrovo di coach internazionali che si stanno mobilitando per premere sull’associazione di categoria affinché questa prenda una chiara posizione rispetto al genocidio in corso. Sono ritrovi speciali perché possiamo lasciarci andare senza paure né giudizio, e ognuno si esprime come si sente in un clima di grande rispetto. Tutti cercano speranza. E l’unica cosa che mi è venuta in mente da condividere rispetto a ciò, mi ha aperto una visione che mi ha ulteriormente depressa.
Ragionavo sul fatto che se speranza dobbiamo trovare, forse questa risiede nel renderci conto, adesso, che avremmo potuto (e dovuto) fare qualcosa prima. Raccontavo che dopo aver lasciato la Palestina, il mio ritornello in famiglia è sempre stato “non parliamo abbastanza di Palestina“. Mi sentivo investita del dovere morale di spiegare a chi non sapeva quello che realmente stavano facendo in quella terra, uno slancio che però non è stato sufficiente per farmi passare ad azioni davvero significative.
Ora che l’adorato popolo viene sterminato sotto i miei occhi, sento di aver fallito perché non ho fatto abbastanza. Avrei dovuto parlare di più, scrivere di più, creare iniziative, portare la Palestina tutti i giorni nei miei discorsi, stare più vicina agli amici e amiche palestinesi, gridare di più. Non sarebbe cambiato nulla, ma avrei affrontato questo momento con la pienezza di cui solo chi s’impegna a fondo per la giustizia può godere. In fondo, a cosa serve espatriare, sperimentare le cose sulla nostra pelle e penetrare culture e situazioni direttamente, se non a far conoscere le cose a chi questa fortuna non ce l’ha?
Quindi, se speranza da qualche parte dobbiamo trovare, forse possiamo farlo proprio qui: essere arrivati a questo punto ci mostra in tutta la sua nudità il nostro fallimento come esseri umani, tutti concentrati sulle nostre piccole cose private e non abbastanza focalizzati sulle ingiustizie del mondo – tutto il mondo, perché non è solo la Palestina vittima delle barbare logiche coloniali capitalistiche.
Adesso che l’abbiamo capito, possiamo sperare di diventare esseri umani migliori. Io mi sento già migliore, e questa è un’altra cosa che mi devasta: non è giusto che i cambiamenti del genocidio si riflettano nel far sentire migliore ME. Non dopo 70,000 morti e una popolazione scientemente affamata.
Mi sento in colpa da quando apro gli occhi a quando li chiudo. Mi sento in colpa perché tutto è diventato fatica, ma la fatica che sopportano i Palestinesi fa impallidire la mia. Però la provo, e questa schizofrenia perenne che invade le mie giornate da quando la maschera è caduta e il massacro è cominciato, ha degli effetti, che io lo voglia o no. TUTTO, e ripeto, TUTTO quello che faccio, vivo, decido nelle mie giornate viene ora vissuto attraverso la lente del genocidio, ed è una cosa nuova che devo imparare a gestire senza che mi schiacci.
Tutto è rimesso in discussione, dalle relazioni, al mio lavoro, alla scelta di dove e se andare in vacanza, a quello che compro, leggo, guardo, faccio. Tutto. E’ come vivere una nuova vita, mentre quella di prima mi manca terribilmente. Mi manca essere spensierata sui social, guardo con stupore quando parlavo della mia gatta, quando facevo la spiritosa, quando scherzavo e ridevo su tutto senza darmi pensiero.
Non sono nuova alla schizofrenia perché me l’ha insegnata israele. Con i profondi cambiamenti che ha inflitto alla terra che ha occupato, la respiravo ogni giorno, a seconda che alla fine della strada in cui abitavo decidessi di andare a destra o a sinistra. A destra c’era la Gerusalemme dei Palestinesi, quella calda, storica, in cui fatica, dolore e amore si mescolavano in una miscela che non ha mai più respirato in nessun altro posto al mondo. A sinistra quella straziata dall’esproprio delle case storiche, dall’arroganza dell’occupante, da un clima di aggressività che, pure lui per fortuna, non ho mai più ritrovato in alcun altro popolo che ho conosciuto dopo (e che avevo conosciuto prima).
E comunque pesa. Pesa tanto. E mi permetto di citare parte di un bellissimo post di Rosanna Maryam Sirignano a questo proposito:
Da quasi due anni viviamo in una sospensione lacerante:la gioia è sempre ferita, il dolore mai abbastanza per lasciarsi cadere.
Non riusciamo più a gustare pienamente un pasto, una giornata al mare, una risata tra amici.Eppure nemmeno sprofondiamo.Restiamo lì, nel mezzo.Nel cuore della contraddizione.La dolorosa gioia è accogliere la capacità sentire tutto insieme e starci dentro.
La bellezza e l’orrore. L’impotenza e il dovere.L’amore per la vita e il lutto per un popolo che ci abita dentro.
E allora, in una snervante altalena, penso alle parole di Federica, l’amica che in questo momento mi parla da Ramallah, dove vive suo marito, che lei raggiunge quando può:
E quella cosa che chiamano resistenza ho imparato si pratica nel quotidiano attraverso i gesti elementari come prepararsi la colazione che ci piace e farla come ci piace. Preparare il caffè con gusto nel silenzio di casa e della città che si sta risvegliando e gustarsi il momento. Leggere le notizie. Vestirsi con cura e attenzione…. Resistere è non lasciar spazio allo scoraggiamento e a chi ti vuole morta dentro.
E mi dico che di fronte al fatto che resistono i Palestinesi, devo smetterla di guardare al mio ombelico addolorato e rimboccarmi le maniche per far sì che andare avanti in questo momento abbia comunque un senso. E che la disperazione che ci agguanta sempre più spesso durante le giornate non abbia la meglio, ma lasci spazio alla voglia di continuare a lottare, a parlare, a stare a fianco dei Palestinesi, e contro tutte le ingiustizie.